Intervista a Sandro Parmiggiani

Intervista a Sandro Parmiggiani

Qualche domanda a Sandro Parmiggiani, curatore della mostra Guardare la metamorfosi, omaggio alla fotografa Carla Cerati.

Possiamo dire che un fotografo di valore non si limita a documentare la propria epoca, ma dandole visibilità, contribuisce, in qualche modo, a crearla?

È un’affermazione del tutto legittima e condivisibile, anche in ragione dei meccanismi che presiedono alla rievocazione di una memoria e alla sua continua rielaborazione: ogni volta che rivisitiamo un fatto vi instilliamo qualche elemento di novità, lo ricreiamo e lo rimodelliamo. La vita si srotola, in vicende personali e collettive, e la fotografia afferra qualche brandello di quell’ininterrotto fluire prima che sia inghiottito dalle fauci del tempo. Un’immagine amatoriale salva dall’oblio volti, corpi, eventi, che continuano a parlare e a alimentare l’immaginario di chi vi si riconosce o ne è stato partecipe. Un fotografo di valore fa qualcosa di più e di profondamente diverso: rende universale il messaggio veicolato da un’immagine, fissando, attraverso di essa, frammenti di verità, o di sollecitazione dell’immaginario, che pure le generazioni future continueranno ad associare a una certa epoca. Così, se si vorrà afferrare e comprendere lo spirito di quel periodo non si potrà prescindere da quelle immagini, che dunque inevitabilmente abbatteranno i confini del tempo e travalicheranno le contingenze stesse in cui furono create, contribuendo a definire e a salvare il volto di quell’epoca, a delinearne i tratti peculiari, continuamente rielaborati dall’immaginario e dall’educazione sentimentale delle persone nel tempo che verrà, in una sorta di tramando senza fine.

Come “stanno insieme” le immagini/denuncia sul manicomio, gli scatti di costume sulla Milano degli anni ’60 o, ancora, i ritratti degli intellettuali?

Tra i capitoli, i cicli del lavoro fotografico di Carla Cerati non ci sono confini delimitati, ma aperti, fluidi. Il pensiero e la sensibilità che hanno contribuito a dare loro forma sono quelli propri di una donna, Carla Cerati appunto, che ad un certo punto della sua vita decise di guardare fuori di sé e della propria famiglia, avventurandosi alla scoperta di un mondo che, ovviamente, stava modificandosi. E così tutto si tiene: le persistenze dell’Italia antica, indagata nelle piccole comunità di provincia e nei paesaggi creati dal lavoro dell’uomo, e gli impetuosi cambiamenti della Milano nei primi anni Sessanta, con la città che avanza a conquistare spazi nuovi; il teatro di Franco Enriquez e del Living Thatre, il teatro crudele della sofferenza e dell’esclusione dentro i manicomi, quello del rito del cocktail nella Milano che, negli anni Settanta, si illude che tutto il meglio debba ancora venire e il teatro delle manifestazioni studentesche e operaie; il fascino che su Carla hanno esercitato i volti (degli intellettuali di passaggio a Milano o di quelli che lei andò a scovare nella Spagna franchista) e i corpi (i nudi in bianco e nero e quelli del corpo nudo di Valeria Magli che danza), e l’esigenza, in alcuni cicli, di fissare i segni che il tempo lascia, a distanza di anni, sul volto e sul corpo di una persona. Dunque, un’attenzione e un interesse inesausti per le manifestazioni del cambiamento, per l’incessante metamorfosi delle comunità, dei corpi, dei volti, e il senso acuto di responsabilità di chi sente il dovere di cogliere quell’incessante divenire.

L’intervista completa qui

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