Daniele Cimaglia e Giuseppe Odore
La dote di Latera
Gli abitanti di Latera, dove fino agli anni cinquanta la coltivazione della cannabis sativa per la produzione di fibre tessili era centrale nell’economia locale, hanno partecipato a un progetto di arte partecipativa. Molte famiglie conservano ancora tele tessute a mano, ereditate dagli avi. Abbiamo chiesto ai residenti di donarci alcune di queste tele, spesso inutilizzate, e raccolto le storie legate alla tradizione della dote: il corredo di lenzuola che i genitori regalavano alla figlia per il matrimonio. La lavorazione della canapa, richiedeva un’organizzazione collettiva. Dopo la raccolta, veniva insabbiata sulle rive del lago per macerare, trasformata in fibre e affidata alle tessitrici. Le storie raccolte testimoniano l’importanza di questi tessuti come simboli di cura, lavoro condiviso e sostentamento.
L’opera finale è un grande lenzuolo realizzato cucendo insieme i tessuti donati, decorato con stampe in cianotipia che ricostruiscono una fotografia delle sarte degli anni cinquanta. Questo lavoro rende omaggio alla comunità di Latera e alle sue tradizioni, evidenziando come conoscenze del passato possano ispirare risposte alle sfide contemporanee, come l’inquinamento dell’industria tessile e della fast fashion.
La canapa, coltivata con metodi naturali, è una fibra sostenibile che richiede meno acqua rispetto al cotone e favorisce l’economia circolare. Tradizioni come quella di Latera offrono modelli di produzione più etici e capaci di risanare il rapporto tra uomo e ambiente.
Rosa Lacavalla
La Festa dell’Equatore
Un tentativo di riparare un pezzo di cielo che si dispiega su un oceano di ricordi. Solide eppure prive di peso, le immagini fluttuano, trasportando frammenti di storie e culture in costante movimento. La Festa dell’Equatore è un viaggio iniziatico, un attraversamento di confini, un invito a immergersi in un flusso di trasformazioni. Un affresco intimo di un passato lontano, di storie familiari che si intrecciano con narrazioni contemporanee.
Allo stesso tempo, diventa una metafora della ricerca dell’umanità di un punto d’incontro che si rivela essere quella linea immaginaria che contemporaneamente divide e unisce, creando costellazioni familiari da un emisfero all’altro. Passato e presente, realtà e sogno si fondono, proiettandoci verso un futuro ancora da scrivere, mentre le stelle cantano dal blu profondo dell’eternità all’anima dell’Oceano.
Sara Lepore
Ingrediente pentru un tort de miere, cu dragoste
Una tovaglia di plastica diventa un ponte simbolico, che guida l’artista attraverso un viaggio a ritroso lungo il suo albero genealogico, con uno sfasamento geografico, linguistico, generazionale. Il disordine delle fotografie rivela un misunderstanding linguistico: nell’archivio fotografico della madre, l’artista scopre quella che immagina — o desidera — essere una lettera d’amore di gioventù sul padre. Scritta in una lingua che, sebbene materna, non le è mai stata trasmessa, la lettera si rivela essere una piccola raccolta di ricette. Il piccolo ricettario diventa l’occasione per ricongiungersi dopo anni dalle zie in Romania e cucinare con loro, in un contesto di totale incomprensione reciproca, una torta — ancora una volta oggetto di ambiguità. Per la fretta, o l’emozione, quella che doveva essere una torta di miele finisce per diventare una torta di mele. Il progetto documenta così lo straniante affetto verso un’identità familiare perduta. Questa riconnessione viene simbolicamente ricreata attraverso il tavolo stesso, un luogo di incontro fisico e metaforico dove il linguaggio, il cibo e i gesti servono come strumenti per ricostruire un dialogo tra passato e presente. Trasformando l’incomprensione in un’opportunità di riscoperta, la lingua diventa uno strumento di rivendicazione culturale e identitaria.
Grace Martella
Memorie del transitare
Memorie del transitare è un progetto visivo che indaga in modo intimo il percorso di
affermazione di genere di cui l’autrice fa esperienza in quanto adolescente transgender nel Sud Italia, cercando di restituire complessità alla rappresentazione dell’esistenza trans attraverso una riflessione sulla temporalità. L’obiettivo della sequenza è in particolare quello di trascendere dei paradigmi visivi e narrativi tracciando un racconto emotivo e metaforico del “transitare” interpretato come movimento nello spazio, nel tempo e nello spettro di genere.
L’artista sublima la sua esperienza personale riscrivendo attraverso la fotografia eventi, processi e sensazioni quali la nascita, la gioia, la rabbia, l’adolescenza e la solitudine, disorientando lo spettatore, che non ha gli strumenti per ricondurre la narrazione ad un corpo e ad un tempo specifici, ma permettendo alle immagini di essere abitate in quanto spazi di solidarietà e di contaminazione emotiva.
Il corpo dell’artista nell’attraversare il tempo, lo spazio e gli stereotipi di genere, si propone dunque come ponte: un corpo vitale che si risignifica e muta costantemente, che è carne e concetto allo stesso tempo.
Erdiola Kanda Mustafaj
Pasqyra e Lëndës (Sommario)
Questo progetto, fatto di immagini frammentarie che ho scattato negli ultimi sei anni tra l’Albania, la Grecia e l’Italia, viene qui presentato come una metafora che invita lo spettatore a riflettere sulla circolarità del tempo e della storia, tra la sovrapposizione di geografie disparate e l’intimità di un paesaggio complesso e meditativo, che paradossalmente fa nascere il conflitto tra generazioni in perpetuo movimento.
Concentrandomi sulla politica e sul paesaggio, desidero richiamare l’attenzione sul significato della diaspora e sul suo impatto sull’ambiente. In questa serie di fotografie, atmosfere sublimi appaiono e scompaiono, alcuni luoghi sono stati trasfigurati, in altri troviamo rituali che mostrano una tensione all’interno del paesaggio, offrendo un doppio sguardo e costruendo insieme una sorta di archeologia della memoria dimenticata dell’esilio.
L’esule è una figura distaccata, sfugge alle coordinate del tempo, è continuamente fuori sincrono, espulso dalle terre ancestrali, questa figura esotica incarna una realtà che si forma a partire da memoria dislocata, aprendosi alla creazione del mito che riposa da qualche parte tra la verità e la distorsione. E il ricordo diventa il sarcofago da cui emergono strutture amorfe che lacerano lo spazio del visibile, e il sudario bianco della carta fotografica si trasforma qui nella somma di utopie vissute e raccontate mille volte, ombre che naufragano sulla spiaggia della memoria come il relitto di una nave.
Serena Radicioli
Non sei più tornato
La sera del 29 Ottobre due gruppi criminali si diedero appuntamento per un regolamento di conti finito male, probabilmente dovuto ad un debito.
(“Latina oggi”)
Quella sera morirono due persone, una delle due era mio padre. Non ho mai saputo realmente quale fosse il suo vero lavoro. Consideravo normale non vederlo tornare per un determinato lasso di tempo, come consideravo normale saltare la scuola per andare a visitare un carcere e ritrovarlo lì. La sera dell’agguato, lo aspettavo a casa, ma non è mai tornato.
La morte di mio padre è stata improvvisa, la mia famiglia non parla quasi mai dell’accaduto, neanche al tempo se ne è mai parlato. Io sono cresciuta piena di domande su di lui, dopo dieci anni ho iniziato a fare ricerche ed esplorare i fatti: ho cercato nei suoi documenti, trovato fascicoli, foto, lettere dal carcere, e riscoperto persone che in qualche modo lo rendono ancora vivo. Il progetto coniuga immagini dell’archivio pubblico e di famiglia, la mia memoria personale con immagini scattate nel presente. Non sei più tornato è un insieme di ricordi, avvenimenti e fatti che rivelano attraverso gli occhi di una bambina le scelte di vita di un padre che è stato ucciso. È un progetto che parla della fine di un’attesa, ma anche di una speranza spezzata, trasformatosi in un incolmabile vuoto che chiede di essere inseguito. Mio padre a casa non è più tornato, e questo è il centro del mio progetto.
Davide Sartori
The Shape of Our Eyes, Other Things I Wouldn’t Know
Per molto tempo, ho visto mio padre come un estraneo: una persona con cui non sapevo come parlare o passare del tempo. Qualche anno fa, ho scoperto della morte prematura di mio nonno, quando mio padre stava diventando maggiorenne, e di come, a causa di quella perdita, fosse stato costretto a seguire lo stesso percorso professionale. Mi sono reso conto che l’assenza di un modello paterno tradizionale era qualcosa che sia io che lui avevamo in comune.
Nel tentativo di creare un legame con lui, ho visitato il suo posto di lavoro e l’ho invitato nel mio. The Shape of Our Eyes, Other Things I Wouldn’t Know prende forma in una serie di tentativi di avvicinarsi a mio padre, sia fisicamente che emotivamente. L’aeroporto e lo studio fotografico diventano gli sfondi dei nostri incontri, mentre la fotografia serve come strumento chiave per esplorare il nostro rapporto in un continuo scambio di ruoli. Il progetto combina azioni collaborative documentate fotograficamente, ritratti e materiale d’archivio, riuniti in undici tentativi di raccontare un’esplorazione che diventa reciproca.
Collettivamente, queste immagini servono come prova tangibile della nostra relazione, catturando sia la distanza che il bisogno di connessione.
The Shape of Our Eyes, Other Things I Wouldn’t Know apre questioni legate alla vulnerabilità, cerca di mettere in discussione norme socialmente consolidate e mira ad attivare un dialogo sul trauma intergenerazionale, andando oltre l’esperienza individuale.