Il libro come pensiero fotografico

Il libro come pensiero fotografico

È il libro fotografico ad essere al centro dell’indagine di Elio Grazioli per questa nona edizione di Fotografia Europea. La mostra Senza meta consiste infatti in una selezione con più di 80 libri fotografici di autori provenienti da tutta Europa.

In questo primo approfondimento sulla mostra, Ilaria Campioli, che affianca Grazioli nell’organizzazione del progetto, pone al curatore alcune domande sul ruolo del libro fotografico. Da qui all’inaugurazione vi racconteremo i libri esposti in mostra.

Per quale motivo hai deciso di trattare il tema della nona edizione del festival attraverso una mostra interamente dedicata al libro fotografico?

Il tema di questa edizione è la peculiarità del pensiero visuale, cioè del ruolo che le immagini hanno nel nostro pensiero, che è diverso da quello delle parole e che oggi è così presente a tutti i livelli da aver fatto parlare di una “svolta visuale”. Ebbene il libro è così tornato ad essere uno strumento importante e soprattutto molto sentito dai fotografi per dar forma appunto al loro modo di vedere e di esprimersi. È uno strumento molto malleabile, benché o proprio perché è relativamente semplice e fisso: pagine gemelle, divise da una piega che le unisce e al tempo stesso le divide, che si sfogliano e sono raccolte da una copertina. Perfetto luogo dove raccogliere le immagini, con libertà di disposizione sulle pagine, con intreccio o meno di testo, di bianco e nero e di colore, di formati diversi, di tagli, sovrapposizioni. Semplice ma malleabile. Poi, soprattutto con le tecniche odierne, si possono variare i formati delle pagine, aprirle e moltiplicarle, creare inserti, cambiare carte e altro ancora. Il tutto, come si capisce bene, immediatamente “visuale”. E non sembra anche la perfetta risposta ai rischi della Rete, con la stessa forma a diramazioni, percorsi, costellazioni? La rete rischia la chiacchiera e la superficialità, il libro è il luogo della poesia e della concentrazione.
E poi il libro è un oggetto molto bello, concreto, sensoriale, di nuovo semplice ma misterioso: che cosa conterrà? Un mondo, il mondo visivo.
E ancora, confesso, volevo fare qualcosa di meno consueto in una manifestazione di fotografia, dove di solito il libro è confinato in bookshop e ha un ruolo di supporto alle mostre, di informazione e di complemento. Ho voluto metterlo al centro, appunto perché mi sembrava l’occasione giusta: il libro come opera dunque, la sua esposizione come mostra a tutti gli effetti.

Ci puoi dire quali sono stati, in linea generale, i criteri che hanno guidato le tue scelte?

I criteri sono stati quelli del tema: pensare per immagini, concentrarsi su ciò che l’immagine ha di peculiare, di diverso dalla parola. Dunque il visuale, il non lineare, il frammentario, il salto, il richiamo, lo slittamento, lo sguardo, un altro spazio, un altro tempo, insomma… il fotografico!
Dunque ho scelto libri innanzitutto d’autore, cioè non di informazione, non cataloghi, non strumenti di studio o di documentazione; libri poi che sono fatti con quel pensiero visuale di cui andiamo parlando, quindi che non nascono con un progetto prestabilito ma crescono su se stessi mentre si realizzano, e sono fatti da fotografi che fin nella loro pratica pensano in quel modo, quindi anche quando scattano. Il libro è un “montaggio”, si usa molto dire oggi, noi aggiungiamo: non filmico ma fotografico. Spesso assomiglia a un diario o a una raccolta di note o microsaggi visivi.

Per quale motivo, dal tuo punto di vista, il libro fotografico sta avendo così tanta fortuna? Penso in particolar modo alla grande diffusione del self publishing e ad alcuni casi esemplari come quello di Cristina De Middel con il libro ‘The Afronauts’.

Credo appunto che si sia ritrovato in esso uno strumento rispondente alle questioni attuali – tecnologia, Rete, velocità, libertà, comunicazione… – in maniera perfetta, cioè non conflittuale, non in opposizione, ma anzi con le stesse caratteristiche, mentalità, modi, ma in modo più consapevole, personale, concentrato, espressivo. Non è un caso che tanti giovani ci si siano rimessi con idee nuove. Quanto al self publishing, per me ha il senso di volersi inventare modi diversi da quelli del “sistema”, approfittando delle opportunità che oggi offre la tecnologia. Non tragga in inganno il self, quasi fosse un segno di isolamento. Anche sotto questo riguardo sintetizzerei in questo modo: in realtà si è creata e si crea un’altra rete, più condivisa, meno casuale, anzi quella di chi nutre lo stesso interesse e la stessa passione. Una rete ormai internazionale e che ha i suoi festival e i suoi strumenti di diffusione. Speriamo davvero che siano sempre di più quelli che la vedono in questo modo e vogliono rendersi visibili insieme. Non c’è rete se ce n’è una sola, rischia di essere un’altra forma di monopolio.

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