Sofia Billi Rostirolla, Barabba
Marco e Raissa, una coppia di pescatori che vive nascosta nella Riviera del Conero, possiede una barca che si chiama “Barabba”, soprannome attribuito a Marco per la sua lunga barba. La sveglia suona presto ma per loro questo sacrificio va oltre. L’alba li aspetta ogni mattina e ad accoglierli è proprio la piccola barchetta all’ingresso della banchina di Numana.
Passare così tanto tempo in mare ha i suoi lati positivi e negativi, fa aprire la visione di un altro mondo celato ai nostri occhi, in particolar modo al giorno d’oggi, poiché sottovalutato e sminuito.
Sicuramente questa coppia di lavoratori dimostra ogni giorno l’amore verso il mare, cercando di svolgere il proprio lavoro nel modo più rispettoso possibile.
Attraverso questa breve selezione di fotografie si introduce una piccola realtà nascosta nell’intimo della natura che, messa a nudo, può far comprendere il senso del sacrificio sorretto dalla gioia di vivere la propria esistenza umana.
Lorenzo Falletta
Nel laboratorio caleidoscopico delle strade umane, “La natura ama nascondersi” si manifesta non tra le fronde o nell’inaccessibile abisso celeste, ma tra i sentieri di cemento e sabbia, in cui la vita quotidiana si dipana in una danza di figure sfuggenti.
Il progetto presentato indaga la geometria del velo che ricopre la pretesa di inosservata intimità delle persone nelle città e lungo le spiagge, due luoghi in cui gli esseri umani transitano in punta di piedi, a latere, sostenuti e inghiottiti da una realtà che sibila tra familiarità e segretezza.
Quest’opera fotografica, dunque, diviene esplorazione e celebrazione del paradosso umano: essere visibili in una visibilità selettiva.
Si invita così il visitatore a guardare ed analizzare non solo con la vista ma con l’empatia, percependo il silenzio di un secondo, aiutati dagli stretti tempi di scatto della street, tenendo a mente che ogni persona, pur in un mare di visi e corpi, è un’isola che sussurra la propria esistenza nella più sottile delle espressioni, volontaria o non.
Sofia Gastaldo, Sibyllae
I Sibillini non sono solo una catena montuosa, ma un luogo di narrazioni e simbolismi. La loro aura è intrecciata con le leggende della Sibilla, e dona al paesaggio una profondità che va al di là della semplice geografia. Il vissuto quotidiano diventa un riflesso di un’eredità, trasformando ogni gesto, ogni paesaggio, in un tassello di una storia che continua a scriversi nel presente.
Il focus è sulla striscia di territorio che va dal paese di Amandola fino ad Arquata del Tronto, caratterizzata dal legame con le storie narrate da Barberino, Antoine de la Sale e Joyce Lussu. L’obiettivo del progetto è quello di indagare la memoria collettiva passando per una concezione folcloristica del luogo, a partire dalle testimonianze di coloro che all’interno del loro vissuto hanno affrontato delle riflessioni che riguardano temi quali magia, sapere storico, comunità, pratiche rituali, in connessione al proprio territorio.
Eleonora Mazzini, Identità nascoste
Ogni cosa ed ogni essere vivente possiedono un’identità nascosta, un’identità che è invisibile all’occhio umano ma che si cela all’interno di tutto ciò che ha materia.
Siamo abituati ad osservare ciò che ci circonda in un unico modo, attraverso i nostri occhi. E se riuscissimo a scendere più in profondità? Ecco che la natura ci svelerebbe la sua identità più nascosta, la sua parte più intima ed invisibile.
Questa serie d’immagini, attraverso un campionario di elementi naturali, ci aiuta a far emergere proprio questo aspetto, e a mostrarci la bellezza più profonda di ciò che quotidianamente ci circonda e di cui anche noi siamo parte.
Camilla Pedretti, La ventura delle venture
Quello della natura è un tempo lento, scandito da ritmi ben definiti in cui attesa, nascita e morte si alternano costantemente, in una ciclicità che pervade ogni cosa, persino la vita dell’uomo.
È proprio immersa nella natura, nascosta da sguardi esterni, che la comunità delle Piccole Apostole di Gesù porta avanti la propria missione. Le giornate delle Sorelle, trascorse nei campi e nei pollai circostanti, le portano ad un contatto profondo con gli elementi naturali, arrivando a fondersi irrimediabilmente anche alla loro pratica religiosa. In inverno, le loro attività seguono il ritmo dettato dalle temperature rigide, in cui la natura stessa pare celarsi, morire per poi tornare ancora più fiorente nei mesi successivi. “Svanire è dunque la ventura delle venture”, così scrive Montale nel componimento Portami il girasole, tratto dalla raccolta Ossi di seppia. È così che nascondersi diventa dunque inevitabile, quasi necessario al fine di assecondare un cambiamento e creare qualcosa di più grande.
In questa realtà, in cui la dimensione religiosa si unisce a quella naturale, svanire avvicina agli aspetti più profondi di sé e così anche la fine può rivelarsi un nuovo inizio.
Filippo Poppi, Comfort says we’re fine
Passeggiando tra le case di notte si viene avvolti da un silenzio dormiente, in cui la mente è libera di espandersi, i pensieri di rimescolarsi, le emozioni si assottigliano ed è come se si potesse respirare più profondamente, con ogni parte di noi stessi.
Si generano così emozioni contrastanti: da un lato l’intimità e la familiarità, calore e sicurezza, e dall’altro una tensione inquieta, un’atmosfera di mistero, desolazione e solitudine.
La luce che attraversa la finestra è l’unica voce che riceviamo, ma in essa si nasconde l’intreccio di storie personali, l’una diversa dall’altra, ma tutte vissute all’interno dello stesso edificio.
Uno sguardo all’interno offre solo una proiezione di un luogo più ampio, costruito, vissuto. L’intimità, la sicurezza, il mistero e l’ignoto; sentirsi a casa in uno spazio
diviso, in una confortevole solitudine.
Andrea Sciascia
Nell’esplorazione dell’essenza umana e delle sue manifestazioni più profonde, ci imbattiamo in quella sensazione che Elena Ferrante definisce “smarginatura”. Questa condizione delinea un viaggio attraverso la complessità della realtà, una realtà che, talvolta, si rovescia su di noi, sfidando le barriere che abbiamo eretto per proteggerci. L’incessante ricerca di sicurezza nel quotidiano ci porta a costruire muri di difesa, a cercare porti sicuri nelle relazioni affettive, nel lavoro, nelle routine. E nel momento in cui queste difese crollano, ci troviamo a vagare in un territorio sconosciuto, privati dei margini che definivano la nostra esistenza. L’ambiente circostante perde forma e coerenza, frammentandosi in una serie di visioni deformate della realtà.
Ho voluto rappresentare questa sensazione di “frammentario” attraverso le polaroid -mezzo fotografico ancora tattile- che assomigliano al nostro essere: come il nostro corpo, possono essere fragili e mutevoli, ma ciò che costudiscono al loro interno rimane sempre impresso nella mente: un ricordo, una sensazione, un’essenza intima che rimane nonostante le trasformazioni esterne.
Attraverso la “smarginatura” di queste immagini cerco di esplorare le profondità dell’animo delle persone, le sue sfaccettature e i suoi misteri nascosti che mi
portano a riflettere sul significato del proprio viaggio esistenziale e sulle molteplici interpretazioni della realtà che ci circonda.
Davide Solieri, Ad un segreto così grande non si arriva per una sola via
C’è un confine impalpabile che la notte lentamente va definendo: al di là di questa soglia vi è la realtà profonda, quella celata e sottratta alla luce. È lì che la natura ama nascondersi: in un alone misterico concentrato nel silenzio e nel buio di una dimensione intima, lontana dal quotidiano.
Incorporee forme della natura, estranee ai sensi, si aggirano diffidenti. Figure schive allo sguardo umano a cui la serie di immagini prova ad attribuire una fisionomia traendole in inganno.
Una fotocamera programmata per scattare, silenziosa e autonoma, è il tentativo di scovare l’essenza della natura eludendone la trascendenza. All’approccio sperimentale, scandito dal rito dell’attesa, si intreccia l’eco spirituale dell’acosmismo: Deus sive natura (Baruch Spinoza).
Queste visioni notturne accompagnano il dibattito tra essenza e forma in un fragile dialogo che forza, senza danno, l’accesso ai segreti dell’Essere.
Alessandro Tincani,Il valore nascosto del sacro
La religione, in quanto dimensione costitutiva della nostra storia, offre un’occasione per riflettere sul modo in cui ci rapportiamo al tema dell’identità collettiva. Infatti, essa viene comunemente considerata un’origine immobile, un antefatto culturale che affonda le radici in un passato nebuloso e si smarrisce nei meandri delle epoche trascorse. Ciò si traduce nella contrapposizione netta fra coloro che vi leggono un patrimonio da salvaguardare con atteggiamento nostalgico e coloro che vorrebbero liberarsene poiché macigno gravante sulle possibili evoluzioni del proprio mondo.
Gli edifici religiosi che abitano la nostra quotidianità e catturano facilmente la nostra attenzione, ovvero i monumenti osservati con interesse perlopiù turistico, non fanno che rimarcare tale concezione, inducendo un distacco in cui si assopisce la profondità umana e storica del sacro. Al contrario, i luoghi di culto nascosti, le piccole chiese situate in zone remote e difficilmente accessibili, rimandano alla religione in quanto bacino di sentimenti ed esperienze attraverso cui tanto i singoli quanto le comunità esprimono la necessità di produrre un senso esistenziale. Nella semplicità delle strutture e nell’incisività dei simboli, così come nell’intimo legame con i rispettivi territori di appartenenza, si cela la forza dei sussurri, dei desideri, dei ringraziamenti, delle paure che hanno plasmato la nostra civiltà.
Raccontare questi ambienti, solo in apparenza lontani, permette di andare oltre gli atteggiamenti di protezione e rifiuto della sacralità; quindi integrarla nel presente di una comprensione dinamica dell’identità culturale.
Sara Tonioni, Can you afford to be an individual?
Due estremi da sempre connessi, per tempo divisi, infine si ricongiungono: nascita e morte, fanciullezza e anzianità.
Il progetto “Can you afford to be an individual?” esplora l’impotente condizione della natura umana.
Tramite un racconto visivo osserviamo come l’essere umano non sia mai in grado di essere totalmente se stesso, se non agli estremi della sua esistenza o nel mondo dei sogni, ove nulla è imposto.
Succubi di una falsa verità, forze esterne ci legano, ci sorreggono e ci costruiscono.
Una progressione di vincoli che si sommano durante la vita di ciascun individuo, che individuo più non è all’apice della sua esistenza.
Esseri dalla natura celata, percepiti tramite un riflesso della propria identità.
Naturali nella fragilità, sicuri nelle imposizioni. Felici prigionieri della nostra stessa illusione.
Emanuela Volponi, Can you see my true face
La vita di ogni essere umano è impregnata e dominata dalle sue relazioni interpersonali. Esso si muove in un contesto di situazioni sociali completamente diverse l’una dall’altra, e in ognuna di queste cerca di adattare sé stesso e la percezione che gli altri hanno di lui indossando una maschera. A volte è lui stesso a sceglierla, certe volte indossa quella che altri hanno scelto per lui.
Esiste però un contesto in cui non serve indossare una maschera? Il progetto “Can you see my true face” parte proprio da questa domanda, provando a trovare una risposta nell’analisi del rapporto tra uomo e natura.
Sgomento, meraviglia, stupore, serenità ma anche impotenza sono sentimenti che tutti provano nei confronti della natura e che, come un filo conduttore, uniscono le esperienze umane.
In questo rapporto la natura diventa l’unica interlocutrice dell’uomo, che non ha più bisogno di indossare alcuna maschera. Si instaura così un dialogo in cui l’uomo riscopre il suo mondo interiore, nel quale può finalmente mostrare alla natura il volto che agli altri è nascosto.