Focus on: No Man Nature

A che punto siamo? L’evoluzione guarda all’interstellare o la nuova frontiera è il microscopico? Per quanto ancora la Terra reggerà la nostra presenza? Quella che una volta veniva chiamata realtà (presenza, concretezza, familiarità) ha ancora un senso? 
La mostra “No Man Nature” mette in scena queste e molte altre domande interrogando il paradosso per eccellenza: ovvero, l’uomo e il suo ambiente…

Viviamo in tempi ipotetici. Le opinioni fluttuano. Un momento ci sentiamo onnipotenti, quello successivo cadiamo nello sconforto. Possibilità luminose convivono con previsioni fosche. All’interno di noi stessi, dei nostri affetti, dei nostri gruppi, delle nostre città siamo contemporaneamente centro e periferia. Nonostante tutto questo (o forse proprio per questo) non abbiamo smesso di farci delle domande…

Alcuni dei migliori fotografi della scena internazionale ci offrono gli strumenti per arrivare a qualche forma di soluzione…
Cercate, ad esempio, tra il lucore delle distese innevate e il nero degli alberi scheletrici nella desolazione siberiana di Darren Almond o seguite la traccia luminosa e magica del cavallo-performer di Amedeo Martegani.

Oppure sorvolate insieme a Mishka Henner le lande destinate all’estrazione del petrolio o all’allevamento intensivo nelle quali i segni del lavoro e della tecnologia divengono espressionismo astratto. L’immagine del paesaggio, infatti – lo confermano le immagini di Carlo Valsecchi – può assumere le forme più diverse; trasfigurazione, oltre l’abituale.

O ancora, da terra, alzate gli occhi al cielo per studiare l’indecifrabile e magnetico linguaggio delle nuvole aiutati dagli scatti raccolti da Helmut Völter. E magari andate oltre il firmamento, sulla scia di Thomas Ruff, destinazione Marte.

A volte gli artisti complicano le cose, diventa difficile capire dove ci troviamo; ma le strade che ci fanno percorrere sono entusiasmanti…

Stephen Gill esplora il tipico sobborgo londinese di Hackney, ma le impressioni materiali di questo viaggio “intaccano” come escrescenze il suo reportage. Così il montaggio e il gioco delle dimensioni di Batia Suter disorienta la percezione e ci assegna ad altri posti e funzioni.

Allo stesso modo il senso delle immagini di Pierluigi Fresia va trovato da qualche parte tra scrittura e visione così come nel mondo di Dominique Gonzalez-Foerster e Ange Leccia è la stratificazione multimediale a sfumare luoghi geografici ed elementi culturali nell’unità di un “tempo ritrovato”.

La simulazione può essere un presagio ingannevole secondo Enrico Bedolo o sublimare pratiche sociali come nel parco a tema dedicato alla caccia ripreso da Ricardo Cases. Fino alla devastazione di luoghi e genti operata dalla guerra con tutta la sua potenza di velamento/svelamento indagata da Richard Mosse.

Qual è, infine, l’invito che viene da questa mostra?
Forzare l’immagine. Interrogarla, denunciarla, rilanciarla, stanarla, scovarla. Portarla alle estreme conseguenze. E verificare, soppesare, vedere, toccare, annusare…

Questo il senso che possiamo attribuire alla ricerca fotografica più vitale: un campo di forze, di domande, di enigmi che nella testa e nel corpo dello spettatore trovano un campo di battaglia, una possibilità di espressione e di espansione.

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